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L’elemento soggettivo nelle azioni di contraffazione di marchio


Con sentenza n. 5722, depositata in data 12.03.2014, la Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento circa l’irrilevanza dell’elemento soggettivo dell’asserito contraffattore nell’azione di contraffazione di marchio, stante il carattere reale di quest’ultima.

La questione, portata all’attenzione della Suprema Corte, trae origine dalla controversia promossa dalla Jack Daniel’s Properties Inc. e dalla Martini & Rossi S.p.a., rispettivamente produttrice e distributrice per il mercato italiano del noto whisky Jack Daniel’s, che convenivano avanti il Tribunale di Padova la società Distillerie Bagnoli S.n.c. esponendo:

a) che il marchio e l’etichetta del prodotto erano state oggetto di registrazione anche in Italia;

b) che le Distillerie Bagnoli avevano immesso sul mercato nazionale bottiglie del citato liquore, prodotto degli Stati Uniti;

c) che detta importazione extracomunitaria si poneva in violazione con il diritto di marchio e con il diritto del suo titolare di vietare l’acquisto e la messa in vendita dei prodotti a tale marchio tramite canali di distribuzione destinati ad altre aree territoriali.

Le ricorrenti chiedevano quindi l’autorizzazione alla descrizione di tutte le bottiglie di whisky Jack Daniel’s detenute presso la sede della resistente.

Accolto il ricorso da parte del Presidente del Tribunale di Padova ed eseguita l’autorizzata descrizione, era instaurata la causa di merito, volta a far accertare e dichiarare la responsabilità delle Distillerie Bagnoli per violazione del diritto di marchio, nonché per concorrenza sleale nei confronti della Martini & Rossi.

Le Distillerie Bagnoli si costituivano in giudizio eccependo di aver acquistato le merce da importanti ditte europee, che l’avevano quindi già immessa nel mercato comunitario, e pertanto contestavano la sussistenza del fenomeno dell’importazione extracomunitaria invocato da controparte, anche in considerazione dell’impossibilità di accertare la diversa destinazione delle bottiglie in questione.

La convenuta invocava altresì la propria buona fede, avendo fatto legittimo affidamento sulla circostanza per cui le società dalle quali aveva acquistato la merce vendevano pubblicamente sul mercato europeo, cosicché – a suo dire – le contestazioni avrebbero dovuto essere mosse nei loro confronti.

Il Tribunale di Padova accoglieva le domande delle attrici, accertando sia la violazione di marchio, sia la concorrenza sleale della convenuta e, per l’effetto:

a) pronunciava sentenza di condanna generica di quest’ultima al risarcimento del danno;

b) disponeva la distruzione delle bottiglie di whisky medio tempore sottoposte a sequestro;

c) ordinava la pubblicazione della sentenza.

Quest’ultima era impugnata dalle Distillerie Bagnoli che, risultata soccombente anche in appello, proponeva quindi ricorso per Cassazione sostenendo, tra i vari motivi di censura, che:

1) l’azione a tutela del marchio non poteva essere promossa nei suoi confronti in quanto acquirente di buona fede (la quale deve, in linea generale, presumersi);

2) ai commercianti professionali non va attribuito alcun onere di verifica del fatto che i prodotti di origine extracomunitaria da essi acquistati siano stati importati in Europa con il consenso del titolare, di talché unico responsabile della violazione dei diritti di marchio sui beni oggetto di importazione parallela extracomunitaria è l’importatore e non coloro che, a loro volta, abbiano acquistato detti prodotti dall’importatore medesimo;

3) l’ordine di pubblicazione della sentenza che accerti gli atti di concorrenza sleale può essere disposto solo qualora sia accertata perlomeno la colpa dell’autore della condotta.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso evidenziando che, in forza del principio di esaurimento, il titolare di un diritto di marchio può opporsi all’importazione di prodotti provenienti da un Paese extracomunitario e contrassegnati con il suo marchio sempre che egli (o altro soggetto da lui legittimato) non abbia consentito all’introduzione ulteriore di quei beni nel mercato europeo.

Secondo la Corte la circostanza che, in questi casi, l’importazione fosse illegittima fa sì che la successiva commercializzazione del prodotto integrasse necessariamente violazione del diritto del titolare del marchio, in quanto non autorizzata dal titolare stesso, “discendendo tale mancanza di autorizzazione da quella di autorizzazione all’importazione”.

Ne consegue – proseguono i Giudici di legittimità – che, trattandosi di attività illecita, incombeva sull’autore della condotta l’onere fornire la prova della propria buona fede.

In ogni caso, “le situazioni soggettive, quali il dolo, la colpa, la buona fede, di chi usa il marchio altrui senza averne il diritto, possono assumere rilevanza solo ai fini dell’accoglimento o meno dell’azione (personale) di concorrenza sleale e di risarcimento del danno proposta contro il responsabile, ma sono del tutto irrilevanti ai fini dell’azione diretta ad impedire l’usurpazione o la contraffazione del marchio, che è un’azione di carattere reale avente ad oggetto immediato e diretto la tutela della titolarità esclusiva del bene immateriale destinato al servizio di un’impresa, nei confronti di chiunque ponga in essere un fatto oggettivamente lesivo di quella titolarità, indipendentemente dalla sua buona fede”.

Poiché nel caso di specie la doglianza proposta dalla ricorrente ha riguardato quella parte delle domande avverse volte a far valere il diritto reale, la Corte ha concluso per la non rilevanza dell’elemento soggettivo di colui che ha agito in violazione del marchio.

Con riguardo al motivo di impugnazione concernente l’ordine di pubblicazione della sentenza, la Suprema Corte, riprendendo la sua costante giurisprudenza, ha affermato che l’ordine di pubblicazione del dispositivo della sentenza che accerti atti di concorrenza sleale e le modalità con cui esso debba essere eseguito costituiscono esercizio di un potere discrezionale ed insindacabile del giudice di merito, integrando una sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso (si vedano, tra le altre, Cass. 6626/13 e Cass. 1982/03).

“Ciò sta necessariamente a significare che la pubblicazione prescinde dall’accertamento di qualunque stato soggettivo di chi ha violato il diritto del marchio poiché la stessa non ha funzione risarcitoria bensì mira unicamente alla ricostituzione dell’immagine del titolare del marchio”.

Per maggiori approfondimenti, si rimanda al testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione 20.01.2014 – 12.03.2014 n. 5722.

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